D’Annunzio esoterico
27 giugno 1999
Libreria Esoterica Ecumenica 2,
Milano
D’Annunzio sperimentò tutto, assorbì tutto, e tutto egli tramutò nella sua sostanza: la sensitività o, come egli si espresse, la carnalità. E in questo – disse – “sono inimitabile”: divino. Poteva non essere, tra tutto, anche esoterico? Per il vero, anche il suo esoterismo fu condizionato dal fondamentale suo narcisismo.
Esoterismo
C’è un esoterismo etnologico, quello delle religioni dei primitivi, della società tribale. In questo ambito e a questo livello della aggregazione umana, l’esoterismo costituiva un insieme di cognizioni e di abilità operative specifiche di determinate persone o gruppi: esso tendeva a costituire il privilegio sociale, una forma di aristocrazia sociale.
L’esoterismo tribale sopravvisse, in Grecia, nell’esoterismo detto misterico: originariamente, con sede ad Elèusi, come culto alle dee Demetra e Persefone. Si trattava in sostanza di esperienza mistica (in greco, dalla radice my, che indica “far silenzio”), incomunicabile per mezzo della parola.
L’esoterismo filosofico, invece, ha inizio con Pitagora. Esoterici erano i suoi discepoli (detti anche epòptai, “veggenti”; mathematichoì, “scienziati”) ammessi agli ultimi gradi della conoscenza, ed esoterica la dottrina che non era lecito diffondere tra i profani. In questo senso di “riservato”, interiore, segreto è stato chiamato l’insegnamento di Aristotele impartito al mattino (logica, fisica, metafisica) ed esoterica la relativa dottrina. (Essoterico, cioè esteriore, divulgabile, era invece l’insegnamento, impartito al pomeriggio, riguardante la retorica, la politica, la dialettica). L’esoterismo filosofico interessò poi la scuola neoplatonica.
L’esoterismo teosofico (fondato da Helena Petrovna Blavatsky, 1831-1891), poi, attinge alla tradizione brahmianica e al buddhismo. La setta dei Rosacroce, massonica, vi ha inserito elementi cristiani. D’Annunzio, al seguito di Claude Debussy, l’amico che gli musicò Le martyre de Saint Sébastien (1911), aderì alla società segreta massonica del martinismo. Essa, antiilluminista, antirazionale, propugnava il panteismo mistico: la divinità si esprime in un processo di emanazioni, per cui il compimento della perfezione umana consiste nel reintegrarsi nella divinità. Louis-Claude Saint-Martin, discepolo del fondatore Martinez Pasqualis, o Pasqually (1727-1779), diede alla concezione del divino nell’uomo un’impronta più empiristica, anzi sensista: il divino nell’uomo, più che una qualità ontologica, è una collazione di sensazioni. Ed è la teoria che fu più congeniale al d’Annunzio, l’Immaginifico dalle mille e mille sensazioni, l’uomo tutto percezione per il quale il mondo – gli altri, se stesso, la vita interiore e la vita esteriore – è un fascio inesauribile di sensazioni. In ciò consiste del resto il suo estetismo. Per lui, non c’è distinzione tra sensitività e spiritualità. Anche la spiritualità rientra nella sensitività: tutto rientra e si esaurisce nella sensazione.
Ora, il nucleo dell’esoterismo teosofico e rosacrociano è, all’interno dell’idea dell’unità del reale, la compenetrazione tra umano e divino, tra materia e spirito. Tale è l’ottica di d’Annunzio, come si intuisce in questa frase forte, icastica del Libro segreto: “La bestia è una forma del divino; anzi, il più misterioso aspetto del divino”.
Ne nasce un esoterismo simbolico, per il quale l’erotico assurge a simbologia del sacro-divino, e viceversa. L’esoterismo simbolico si connette poi, in d’Annunzio, con l’esotersimo esegetico.
In senso esegetico, esoterismo denota un criterio di lettura dei testi sacri. I testi sacri diventano un messaggio cifrato – un messaggio diverso da quello ricavabile dal senso letterale, che è invece essoterico -, che è la verità rivelabile soltanto a coloro che hanno l’intuito interiore. In questo esoterismo rientra pienamente d’Annunzio. Da notare, però: il suo esoterismo riguarda fondamentalmente il suo modo di concepire se stesso, cioè di concepirsi come mistero.
Stando ad un suo ricordo stilato nel Libro segreto, la badessa del monastero di Ortona, quando egli aveva ancora nove anni, leggendogli la mano gli dichiarò: “[…] tu sei mistero a te stesso, o figlio”.
L’interesse di d’Annunzio per il misterico crebbe dopo il suo periodo fiumano, periodo, in cui egli si sentì quasi a contatto con la morte, “dove il corpo diventa inerte come la mota, come il sasso, come il legname, come l’escremento”, scrisse nel Libro segreto. Da allora, e soprattutto a contatto con Gian Carlo Maroni, l’architetto del Vittoriale dotato di capacità medianiche – ormai a Cargnacco di Gardone Riviera, dunque -, scattò in lui la voglia di trovare la chiave – disse – “che aprisse alfine in me quel Segreto che a me medesimo è segreto” (18 marzo 1925, in Mazza, p. 51). Ciò lo condusse a domande su profonde verità di largo respiro, anche se focalizzate su se stesso. Un esempio stupendo di esoterismo esegetico, sempre focalizzato sulla propria personalità, sulla propria esistenza, mi sembra costituito dal significato che d’Annunzio attribuì al dipinto del Lebbroso – collocato nella omonima Stanza del Lebbroso -, sulla base di una interpretazione simbolica di un episodio fondamentale della vita di san Francesco.
Nel Libro segreto, edito a partire dal 1935, quindi al Vittoriale, si chiese: “vi è oltre la vita e la morte un’altra plaga dove possa abitare l’asceta? v’è quel ‘terzo luogo’ […] ?” (Di me, [139] e cfr. [86]).
Che cos’è il “terzo luogo”? Egli lo espose in questi termini: “Le visioni fulminee del ‘terzo luogo’, d’una intiera verità, come se i cinque sensi fosser sostituiti da cinque miriadi d’altri sensi (illuminazioni estatiche non volontarie, che io non posso per volontà rinnovare)” (Mazza, p. 60).
Nella sua euforia francescana, d’Annunzio tirò in ballo Francesco d’Assisi anche a proposito del “Terzo luogo”:
“Io conosco il terzo luogo che anche San Francesco conobbe. Il primo luogo è la vita con le sue bellezze e i suoi dolori. Il secondo è la morte, per alcuni principio di letizia e di godimento, per altri soglia dell’orribile silenzio. Il terzo è quel senso indefinito che guida e conduce verso il destino con sicurezza piena dell’evento” (Fortini, p. 102).
La sicurezza valeva per situazioni contingenti, pur tuttavia importanti e fatali, come la riuscita dell’impresa del Cattaro, per la quale egli richiamò il “terzo luogo” (Regimen); ma, soprattutto, si rapportava precisamente alla collocazione di sé «oltre» questo mondo:
“«Il tuo bene non è nella tua gloria. E la tua gloria non è di questo secolo»”, gli parve gli dicesse sua madre (La ferita coronale).
Ed inoltre egli ricordò come, fin da piccolo, nel bel mezzo dei giochi, “ecco che […] riudivo a un tratto quella voce della mia anima inebriata di sé e del suo implacabile miracolo. Immortale quod opto” (Lucrezia Buti).
Si può dunque dire che il Terzo Luogo è il momento magico in cui l’anima oltrepassa se stessa “liberandosi dall’errore del tempo” (Ferrara, p. 20).
Forse, d’Annunzio lo sperimentò negli ultimi anni. Se nel Trionfo della Morte (cap. «La vita nuova») egli era il “veggente in cui la prescienza divina [era] sempre più lucida e terribile”, negli ultimi anni, al Vittoriale, divenne un “cervello fatto di pupille innumerevoli”, “cieco e veggente” (Regimen).
In questo senso, trattando della distinzione teologica tra l’anima che vede Dio in paradiso – l’uomo “comprensore” – e l’anima che crede in Dio, in terra – il “viatore” -, egli scrisse:
“Non sono viatore, sono comprensore; perché, non credo, veggo; e veggo da comprensore” (Lucrezia Buti).
Ma in realtà il “terzo occhio” era la capacità di leggere nel subconscio, capacità che egli si attribuiva definendosi Orbo Veggente:
“È la mia magia, questa? Davvero dunque la malattia è d’esser magica? Tutto è presente. Il passato è presente. Il futuro è presente. Questa è la mia magia”, aveva scritto già nel 1916, nel Notturno. Ed ancora nel 1916:
“Avevo all’estremità delle falangi non so che bagliore di veggenza” (Quanti giorni al giovedì santo?).
Su un piano più coerente con l’esoterismo esegetico, d’Annunzio espresse una particolare intuizione negli anni che si possono definire della sua sollecitazione religiosa, quando ebbero a morire, nel 1912, gli amici Adolphe Bermond e Giovanni Pascoli. In quel contesto, da cui nacque, nel medesimo anno 1912, la Contemplazione della morte, così D’Annunzio vedeva il mistero nella vita di Cristo e nella narrazione evangelica:
“Non vi fu, […] nell’orto degli Ulivi, un apostolo ignoto che si unì agli undici per ricompire il numero […]? […] E [mentre] tutti, lasciato Gesù, se ne fuggirono […,] un certo giovine lo seguitava, involto d’un panno di lino sopra la carne ignuda […]. Nulla si seppe di lui […]. Forse un giorno dirò una imaginazione che di lui mi giunse” (Contemplazione della morte).
D’Annunzio non portò a compimento l’“imaginazione” che si aspettava. Ma questa frase: “una imaginazione che di lui mi giunse”, rimanda in pieno alle pratiche spiritiche.
La Cabbala e l’unità del reale
Anche la Cabbala rientra nella linea esoterica per quanto riguarda i testi sacri giudaici: gli arcani divini sono individuati nel suono e nella forma stessa dei segni alfabetici. D’Annunzio vi aderì – almeno, così egli ritenne – già nel 1887.
La “Sancta Kabala” (così il titolo di un suo articolo su «La Tribuna», 29 ottobre 1887) fu la sua passione nel 1887:
“Da qualche tempo io vivo in un altro mondo. So finalmente come si fa […] a ragionare con li spiriti, ad essere ospite di un reame di fiabe […]” – nel 1883 aveva assicurato di parlare con la Fata. “Io so che tutto è una emanazione della sostanza una, infinita ed eterna; e che l’uomo terrestre è immagine dell’uomo celeste; e che li universi sono i riflessi dell’Uno. […] Io conosco le virtù della luce astrale e della luce planetaria. Io vedo i segni […]. La natura ha stabilito i caratteri speciali che compongono il segno di ciascun membro, e con l’aiuto di tali segni ella rivela i più intimi segreti di ogni organismo umano e dell’uomo soprattutto. Nessuna cosa creata è senza un particolar segno. Soltanto bisogna vederlo. L’armonia celeste – dice Agrippa nella sua Filosofìa occulta – mostra la virtù che si cela nella materia, la fortifica, la fa apparire […]. Per esempio, quando uno vuole attirare a sé la virtù del Sole, bisogna che cerchi quanto v’è di più solare tra i vegetali, le pietre, i metalli, e li animali dal pelo soave”, ecc.
Questo aspetto affonda d’altra parte nella superstizione: un legame di “concordanze e di presagi e di segni e di avvisi rischiarati dalla mia natale superstizione d’Abruzzo” (Lucrezia Buti).
L’aneddotica al riguardo è vastissima e ricca di elementi simbolici e di usanze, nel campo delle pietre e dei metalli – da qui la sua fissazione per gli amuleti -, degli animali, dei numeri (il tredici, infausto, lo sostituiva con un “12+1” o aggiungendo a lato il disegno del pugno con due dita a forma di corna). Un episodio: un venerdì 13, d’Annunzio prende un fiacre n. 13, paga 13 franchi, entrato a casa trova 13 lettere pervenutegli, a pranzo ha 13 ospiti, la sera a teatro gli cade sulla testa un oggetto che per poco lo acceca («Journal des Débats», 27 marzo 1910).
Ma c’è un aspetto più profondo. È l’unità dei contrari, l’identità degli opposti: spirito e materia; psiche e corpo; corpo e anima; “pensiero e atto, inconsapevolezza e sapienza, parola e silenzio” (Libro ascetico). Soprattutto, bene e male – egli mutò il motto francescano in “Pax et Bonum. Malum et Pax”!
Nella visione dell’uomo “intero”, infatti, “il male non è se non un bene che non si conosce” (Notturno). “Il male non è se non un dio profondo” (Libro segreto).
In questa visione di unità dei contari rientra quella di vita-morte.
Oltre che per le mai infrante tensioni superomistiche, vita e morte in d’Annunzio si congiungevano all’interno di questa visione: immortalità della vita, mortalità della morte.
“Adoro la vita che si perpetua nella morte. Adoro la morte che è la natività sovrana e onniveggente” (Il Vangelo secondo l’Avversario di Le faville del maglio). “La morte è infatti presente come la vita, è calda come la vita, è bella come la vita, inebriante, promettitrice, trasfiguratrice […] Muoio vivendo” (Notturno).
La morte era, per D’Annunzio, il rinnovarsi in continuità di vita:
“Io, per esempio (poiché sono un esempio, un raro e grande esempio) dovrei essere immortale: non della vana immortalità che mi attribuiscono l’arte mia e il mio eroismo di guerriero carnalmente” (Di me, [125]).
Egli era “immortale”, in quanto, compiuta questa vita come l’ultimo capitolo di un’opera d’arte, si apprestava a vivere un’altra vita come ulteriore capitolo o atto della persona immortale. L’ulteriore vita doveva avere tuttavia un passaggio obbligato: il “Buio”, la morte fisica; il “disparire”, per apparire per sempre.
Un distico sintetizza il concetto dannunziano della sua immortalità:
“O Vària, se tu sii la mia sostanza, immortale è la vita che m’avanza” (Carmen votivum).
D’Annunzio e il magico paranormale
Alla morte della madre (27 gennaio 1917) affermò, in lettera a Olga Brunner Levi, detta Vidalita, di averla vista:
“Voglio condurre mia madre alla sua pace. Ella me lo domanda. Me l’ha domandato stanotte qui accanto al letto, bella e luminosa come un tempo” (D’Aroma); e ancora il 2 novembre 1923, a Maria Camerlengo, già domestica della madre:
“Tutta la notte ho vegliato con lo spirito della santa […]; la mia santa è sempre qui, è sempre con me” (Mazza, p. 27).
Alla “mano della madre” attribuì con convinzione la salvezza della vita quando egli fece il famoso “volo dell’Arcangelo”, come chiamava la caduta da una finestra il 13 agosto 1922. Successe che – ormai i biografi sostengono questa ricostruzione –, mentre Luisa Baccara – una sua amante fin dal tempo di Fiume, ma da quel giorno diventata solo la direttrice-capo del Vittoriale – stava suonando al piano nella stanza della Musica, d’Annunzio, seduto in bilico sul parapetto della finestra, amoreggiava con Jolanda, sorella di Luisa; allora Luisa, in uno scatto di stizza indispettita, s’avventò contro la sorella: d’Annunzio avrebbe perso l’equilibrio, di fatto precipitò, si fracassò la testa, restò parecchi giorni in stato di incoscienza, non denunciò alcuno, si rifiutò sempre di parlarne, i giornali sorvolarono sulle cause notificando soltanto il “volo” – volo d’Arcangelo – e dopo qualche mese d’Annunzio, guardando una fotografia scattatagli il giorno prima della caduta, notò per la prima volta una mano che gli sorreggeva il volto. Colui al quale lo confidò non vedeva affatto quella mano, ma lui era sicuro: nelle pieghe della cravatta vedeva la mano della mamma, proprio con l’anello che ella soleva portare all’anulare. E ne era così convinto, che poi regalò la foto alla madre di Tom Antongini, suo segretario, con la dichiarazione: “questa immagine misteriosa” (Mazza, p. 28).
Di Giuseppe Piffer, legionario fiumano caro a d’Annunzio e sepolto al Vittoriale, scrisse alla mamma di lui:
“Beppi è qui presso di me e presso di voi, atomo nuovamente vibrante nel cosmo universale. Mi dice parole altissime di saggezza e di amore per voi e per tutti. Il volto suo è sereno […]. C’è forse un po’ di accoratezza nella sua voce; ma non è di pianto. Mi esorta e vi esorta alla visione dell’amore uno e indissolubile […]” (Mazza, p. 53).
La sua confidente e vice-direttrice al Vittoriale, Aèlis Mazoyer, testimoniò che d’Annunzio non volle più contattare la defunta Eleonora Dusa attraverso le sedute spiritiche, perché la Duse lo andava a visitare normalmente più volte la settimana e si intratteneva con lui a parlare. La Aèlis pensò che fosse effetto della droga, ma una notte lo sentì parlare in camera: lui era solo; Aèlis, preoccupata, restò a spiare, lui aprì di scatto la porta, la vide, disse: “Era lei”, cioè la Duse. Ma forse neppure lui ci credeva per davvero: successivamente espresse scetticismo sul fenomeno che egli stesso aveva dichiarato di sperimentare, finché confidò che gli sembrava di vederla dappertutto, che ella gli si avvicinava quasi a toccarlo e che lui la vedeva completamente nuda e provava “una specie di gelosia…” (Aèlis Mazoyer, Diario, in Mazza, p. 54).
C’è da pensare a fantasticherie, ad allucinazioni? Probabilmente. Però, sollecitato in seguito a mettersi di nuovo in contatto con la Duse attraverso i riti spiritici, si rifiutò: non intendeva rinnegare tutta la propria vita per la “fede” nell’aldilà. “Se fossi certo dell’altra vita dovrei anche condurre una vita da monaco”, spiegò. “No, no. Voglio rimanere con la mia lussuria senza freno”, dichiarò. “Preferisco il nulla, la polvere …” (Aèlis Mazoyer, Diario, in Mazza, p. 55).
Siglario dei testi citati
D’Aroma: Nino D’Aroma, L’amoroso Gabriele, Roma, V. Bianco, 1963.
Di me: Gabriele d’Annunzio, Di me a me stesso, a cura di Annamaria Andreoli, Milano, Mondadori, 1990.
Ferrara: Mario N. Ferrara, Religiosità e creatività in Gabriele d’Annunzio, in D’Annunzio e la religiosità. Atti del convegno 22-23 giugno 1981, «Quaderni del Vittoriale», 28, 1981.
Fortini: Arnaldo Fortini, D’Annunzio e il Francescanesimo, Assisi, Edizioni Assisi, 1963.
La ferita coronale: in Gabriele d’Annunzio, Il libro ascetico (si veda).
Libro ascetico: Gabriele d’Annunzio, Il libro ascetico della giovane Italia.
Libro segreto: Gabriele d’Annunzio, Cento e cento e cento pagine del libro segreto di Gabriele d’Annunzio tentato di morire.
Lucrezia Buti: Gabriele d’Annunzio, Il secondo amante di Lucrezia Buti.
Mazza: Attilio Mazza, D’Annunzio e l’occulto con un saggio astrologico di Sirio, Roma, Edizioni Mediterranee, 1995.
Quanti giorni al giovedì santo?: in Gabriele d’Annunzio, Notturno.
Regimen: in Libro segreto (si veda).
[Francesco di Ciaccia, D’Annunzio esoterico, Conferenza, con la partecipazione di Attilio Agnoletto, Università degli studi di Milano, e di Andrea G. Pinketts, 27 giugno 1999, Libreria Esoterica Ecumenica 2, Milano].